Per Dudi D'Agostini.
Ci scambiamo qualche ricordo e qualche considerazione sui tempi dell'Accademia (l'Albertina di Torino, fra metà Sessanta e inizio Settanta). Io sono più vecchio di cinque o sei anni, ma l'esperienza è stata simile: simile per i riferimenti, non tanto i vicini quanto i lontani, pressoché mitici. Per Dudi e i coetanei che continuavano a inseguire la chimera della pittura scartando poverismi e concettualismi, valeva ancora, come per la mia generazione se non aveva fatto altre scelte, il modello dell'Action Painting americana, fino a Rauschenberg, letto dal versante informel anziché da quello pop o dada. Che cosa ci esaltava di quella pittura, che la Galleria Civica e alcune gallerie private ben documentavano nell'arco dello stesso decennio? Credo specialmente la libertà nell'affrontare le pratiche del dipingere, impastando materiali e tecniche della tradizione con tutto il possibile, il brut e il sofisticato, il vero più greve e l'artificio intellettualistico, l'arcaico e il tecnologico; restando comunque pittura. Poi Dudi ha attraversato una importante esperienza teatrale, collaborando con il più pittore degli scenografi, Lele Luzzati, maestro anche d'illustrazione nelle forme più aggiornate (chi non ricorda almeno le geniali animazioni che trascrivevano in favola visiva la musica di Mozart?). Anche di lì Dudi ha tratto la convinzione che il il semplicissimo e il complesso, l'improvviso e il meditato, il leggero e il profondo possono incontrarsi senza forzature nell'immagine. Sfruttando tecnologie attuali senza subirle, ritrovando comunque quella pittura-pittura che non è una specie di materie e di modi di elaborazione, ma una prospettiva di osservazione e registrazione delle emozioni provate nell'osservare prima il modello, immediato memorizzato sognato, e poi l'immagine nel suo crescere per progressiva messa a punto. Nei lavori qui esposti, ad esempio, l'operazione del figurare vien condotta quasi esemplarmente per strati: prima un disegno o una fotografia, che definiscono sinteticamente lo schema, poi una serie di interventi a collage, i ritagli direttamente applicati all'ossatura di base o a loro volta scansionati, così da essere riassorbiti nell'immagine complessiva. Ci vuole una visione sintetica, perché l'immagine non perda la sua unità di tessitura, pur arricchendosi di una definizione naturalisticamente più precisa e decorativamente più ricca. Per questo varrà l'occhio dello scenografo che articola con chiarezza lo spazio per i movimenti dei suoi “abitatori”; e ci vuole l'occhio del pittore, perché il corpo cromatico della figura cresca organicamente ben fuso. Insomma, anche in questa serie confluisce tutta l'esperienza di Dudi, semmai messa in opera con “estiva” non-chalance. Pino Mantovani